Introduzione alla fiaba
Le terre africane sono ricche di leggende che intrecciano magia, coraggio e lezioni di vita. Una delle storie più affascinanti ed elaborate è quella di Manjuza e il Serpente a 7 Teste, un racconto tradizionale del Sudafrica che si tramanda di generazione in generazione tra gli Zulu.
Questa fiaba narra le vicende di Manjuza, una giovane dal cuore puro, e della sua incredibile sfida contro una maledizione che ha trasformato l’amato marito in un serpente mostruoso.
Questa storia mette in luce il potere della determinazione e dell’amore nelle culture africane.
Buona lettura!
Provenienza
Sudafrica
Popolo Zulu
La leggenda africana di come Manjuza cercò di liberare dalla maledizione il serpente a 7 teste
Manjuza era una bellissima fanciulla di un piccolo villaggio abitato da gente umile e laboriosa.
Quando cantava tutti si fermavano ad ascoltare la sua voce melodiosa, ma era soprattutto vederla danzare, seguire il ritmo ed esprimere con il corpo ciò che aveva nell’anima, che riempiva il cuore.
Da tutti i villaggi vicini e lontani venivano a cercare Manjuza per chiederle di danzare ai matrimoni. E lei sempre accettava, perché le dava gioia poter allietare e portare il sorriso in un momento così bello.
Ma Manjuza non era l’unica ad essere ricercata nel piccolo villaggio. Tra tutti i cacciatori spiccava Mthiyane: bello, dal fisico scultoreo, ma soprattutto abilissimo nella caccia.
Tutte le donne dei villaggi attorno speravano che Mthiyane si interessasse alla loro figlia.
Ma nessuno si stupì quando Mthiyane e Manjuza si sposarono: erano veramente una bellissima coppia.
Per anni vissero felici nella loro piccola capanna, e dal loro amore nacquero tre figli.
Un giorno, mentre Mthiyane conduceva una lunga battuta di caccia, che lo aveva portato lontano da casa per dei giorni, con altri giovani dei villaggi vicini, una vecchia si presentò alla porta cercando Manjuza. Sua nipote si sarebbe sposata e voleva che la giovane donna ballasse al suo matrimonio.
Purtroppo per quella data Manjuza aveva già garantito la sua partecipazione a un altro matrimonio, per cui si trovò costretta a rifiutare l’invito.
La vecchia provò a convincerla in tutti i modi, offrendole anche un compenso maggiore, ma la parola data è sacra. Manjuza trovò che se la nipote avesse potuto spostare la data del matrimonio sarebbe stata libera, e quindi felice di poter portare gioia a entrambi i matrimoni.
Ma la vecchia, indignata, rifiutò e, uscendo, guardò la giovane dritta negli occhi e le lanciò una maledizione: il marito di Manjuza, il cui rientro era previsto tra qualche giorno, tornando a casa si sarebbe trasformato in un terribile mostro.
E così i giorni passano e quelle parole continuavano a risuonare nei pensieri di Manjuza. La povera non riusciva più a dormire per la preoccupazione e il suo sguardo, sempre vivace e allegro, s’era spento.
Aspettava il rientro del marito con angoscia sempre più crescente.
Una sera, quando i bambini già dormivano e la vita del villaggio si era spenta, finalmente sentì arrivare il gruppo di cacciatori, tornato vittorioso con la selvaggina. Mthiyane entrò nella capanna: non fece in tempo a salutare l’amata Manjuza, che appena varcata la soglia si trasformò in un grosso serpente a sette teste.
Manjuza rimase pietrificata dal terrore, ma quando sentì muoversi e brontolare uno dei figli nel letto, capì che non aveva molto tempo per nascondere il povero marito.
Liberò in fretta una capanna che utilizzavano per conservare le provviste e vi accompagnò l’orribile serpente, che nascose in un grosso vaso nero dove tenevano le granaglie.
Chiuse la capanna e nascose la chiave tra le vesti.
Quando i bambini si svegliarono e le chiesero se il padre fosse tornato, con il cuore gonfio di pena e preoccupazione rispose che Mthiyane si era fermato in un villaggio vicino e sarebbe tornato tra qualche giorno.
La sera, dopo che i bambini si erano addormentati, tirò fuori la chiave e andò nella capanna dal marito: aprì il vaso e sette paia di occhi la guardarono nell’oscurità. Mthiyane era ancora con le sembianze di un serpente a sette teste e lei non sapeva come aiutarlo.
Tornò in casa e pianse fino ad addormentarsi.
Quella notte la sua defunta nonna le apparve in sogno. Le disse che per spezzare la maledizione avrebbe dovuto danzare a sette matrimoni, tanti quante le teste del serpente, e che il mostro sarebbe dovuto rimanere nascosto per tutto il tempo, anche ai figli.
I giorni passarono: Manjuza continuava a tenere chiusa la capanna, a portare del cibo al serpente la sera. I bambini chiedevano quando il padre sarebbe tornato. Arrivarono a pensare che Mthiyane fosse morto e che la madre non lo voleva dire per non angosciarli. I bambini piangevano, e anche Manjuza piangeva per il dolore di non poter alleviare le pene né del marito né dei figli.
Ma per fortuna la gente continuava a chiedere alla giovane donna di ballare ai matrimoni e lei accettava sempre carica di entusiasmo e di felicità.
Passò il primo matrimonio, il secondo, il terzo.
Manjuza teneva conto dei matrimoni ai quali ballava, aspettando con trepidazione il settimo, per riavere il marito come la nonna le aveva promesso.
Tornò dal sesto matrimonio e scoppiava di felicità: tra poco lei e i bambini avrebbero potuto riabbracciare Mthiyane. Quando arrivò l’invito per il settimo matrimonio non riusciva a contenere la gioia: era solare, sorrideva a tutti, tanto che nel villaggio qualcuno iniziò a pensare che si fosse innamorata di un altro uomo e che avesse dimenticato il marito così in fretta.
Il giorno del settimo matrimonio si svegliò prima dell’alba, si preparò e vestì con cura perché quando sarebbe tornata a casa Mthiyane la vedesse splendida.
Andò nella capanna a trovare il serpente: scoperchiò il vaso e gli disse che presto la maledizione sarebbe stata spezzata.
Ma il pensiero di riabbracciare il marito distrasse Manjuza, che dimenticò di chiudere a chiave la porta della capanna.
Quando partì per andare al matrimonio, i bambini andarono, come ogni giorno, alla capanna per curiosare attorno e scoprire perché la madre la tenesse chiusa. E con loro grandissima sorpresa, quel giorno la porta non era chiusa a chiave!
Entrarono e guardarono in ogni angolo, ma non vi era nulla di interessante. Nella capanna vi era qualche provvista, come sempre. L’unica cosa fuori posto era un grande vaso nero, che di solito era in un angolo mentre ora era al centro della capanna.
Il bambino più grande lo aprì per vedere cosa ci fosse dentro: un mostruoso serpente a sette teste lo fissava, sette paia di occhi e sette lingue biforcute.
Mentre il serpente strisciava fuori dal grande vaso, i bambini corsero via urlando di terrore.
Dal villaggio ben presto arrivarono uomini e donne armati di bastoni per scacciare il grosso serpente, che nel frattempo era uscito fuori dalla capanna e si dirigeva verso il fiume.
Gli abitanti del villaggio rimasero pietrificati dal terrore quando videro un vero serpente a sette teste: i bambini avevano raccontato di un mostro, ma pensavano si trattasse solamente di un grosso serpente.
Alcune donne versarono acqua bollente sulla creatura: il povero Mthiyane iniziò a gemere e urlare mentre la sua pelle si staccava.
Proprio in quel momento arrivò al villaggio Manjuza, di ritorno dal settimo matrimonio.
Non appena vide così tanta gente concitata e armata vicino alla sua capanna iniziò a correre per arrivare a casa il prima possibile, con il cuore in gola, affannata da brutti pensieri.
Quando vide il grande serpente a terra urlò di terrore e di sconforto. Gli si avvicinò cauta, incredula.
Ma dalla pelle del serpente ecco spuntare fuori il suo adorato marito: la maledizione era stata rotta, come detto in sogno!
Mhiyane si alzò, intontito come dopo un lungo sonno. La moglie lo abbracciò piangendo e anche i bambini corsero ad abbracciarlo.
E mentre Mthiyane ancora si risvegliava e cercava di capire cosa fosse successo, il villaggio si radunò attorno al fuoco e tutti iniziarono a ballare in una gran festa.
Manjuza ballava radiosa, in modo più incantevole e gioioso di quando non avesse mai fatto.
Storia liberamente ispirata a “Il serpente a sette teste” nel libro “Le mie fiabe africane” a cura di Nelson Mandela, Donzelli Editore